L’Accademia
Già dall’inizio degli anni trenta esisteva un gruppo di giovani donne che indossava il costume nero in occasione di manifestazioni varie (la Domenica del Corriere, ad esempio, il 21 gennaio 1934 pubblicava la foto di un folto gruppo di giovani tempiesi in costume che si recavano a Sassari in visita a S.E. Starace).
Nei primi anni sessanta un nutrito gruppo di ragazze, che sfilavano nelle varie Sagre (Cagliari, Sassari, Nuoro) diede vita al Gruppo Folk Città di Tempio. Nel 1966, infatti, concretizzarono il progetto di Isa Bionda e Stefania Solinas: quello di costituire a Tempio un gruppo che continuasse a tramandare usi e costumi della ricca tradizione gallurese, perchè Tempio ha sempre amato, come del resto, tutti i paesi della Gallura, i canti ed i balli tradizionali.
Ce lo ricorda Francesco De Rosa in “Tradizioni Popolari di Gallura” pubblicato nel 1899: “… i galluresi, e fra questi segnatamente i terranovesi vanno pazzi per i balli… che eseguivano per lo più al suono del canto… e quelli usati in Gallura sono: lu passu, lu baddu zoppu, lu baddu di tre, lu baddu isciancu, lu baddu riccu, lu baddu lisciu, lu baddittu furriatu, lu baddittu sisirinatu…”. Isa, la mente ed il braccio, con Stefania, l’anima e i piedi del gruppo, affiancati da Giuseppe Nurra, presidente della Pro Loco di allora, che continuamente stimolò e motivò le ragazze a continuare su quella strada, contattarono alcuni cultori di tradizioni popolari che in quel momento offrirono la loro disponibilità.
Nei locali della Pro loco, il compianto Matteo Peru con Nanni Peru di Aggius misero le basi di un gruppo di canto. Al ritmo dell’organetto dell’indimenticato Ninnuccio Peru, le ragazze iniziarono ad apprendere i primi rudimenti dei balli galluresi. Stefania, che grazie al padre Paolo, originario di Bortigiadas, conosceva già i passi dei vari balli, diede un aiuto notevole nell’insegnamento delle danze popolari.
Se a Tempio si continua Ia ballare Lu tre in cincu, Lu dui in tre, Lu baddhittu, La Danza etc, bisogna darne il merito ad Aggius che per tanti anni ha saputo mantenere vive le danze della Gallura mentre altri paesi, Tempio compreso, avevano “rifiutato” li baddi saldi, perchè sapevano di vecchio e di stantio preferendo li baddi zivili segno di modernità e progresso.
Quando i balli tradizionali galluresi stavano perdendosi ecco che, fortunatamente, è nato il Gruppo Folk Città di Tempio.
Il debutto ufficiale avvenne al Teatro del Carmine nel 1969. Da quel momento, vennero coinvolte sempre più ragazze ed arrivarono i primi inviti dalla Costa Smeralda che aveva iniziato la sua ascesa. Il gruppo fu invitato anche a partecipare ad un festival a L’Aquila dove ottenne un successo incredibile. Ma nonostante tutte le continue e positive affermazioni, questa iniziativa era monca, priva di qualche cosa: mancava, infatti, l’elemento maschile per completare la fisionomia del gruppo.
Ecco finalmente il primo ragazzo: era Mario Pirrigheddu che “spiava” le prove da una finestra della Pro Loco. Venne subito invitato ad “entrare” e da allora altri ragazzi si unirono e dopo qualche mese il Gruppo poteva dirsi completo. E’ stato così un continuo avvicendarsi di giovani che con la loro partecipazione hanno dato l’opportunità al Gruppo Folk Città di Tempio di arrivare a traguardi insperati.
L’ abito femminile di Tempio, completamente nero con un velo che incornicia e impreziosisce il volto delle ragazze, è stato sempre apprezzato per la sua semplicità e per la sua eleganza. Una documentazione iconografica dell’abito nero è rappresentata da una stampa del Corninotti ” Attitu in Tempio” che così viene descritto dal Casalis alla voce Gallura” Le cantatrici, insieme con le parenti più prossime della persona defunta, dispongonsi presso questa intorno al cataletto vestite di bruno con un gran velo dello stesso colore sopra quello di colore bianco che copre il seno e cinge la faccia così come usano le monache.
Vedine la vera immagine nell’atlante aggiunto al primo tomo del Viaggio in Sardegna del Gen. La Marmora. E lo stesso La Marmora: “Nei grandi lutti ed in occasione d’un attitu importante si vestono proprio come monache: le vedove portano sulla fronte delle bende bianche come si usava ai tempi di Dante e di Nino di Gallura”. La particolarità del costume nero è la faldetta cupaltata: “Le donne quando van fuori di casa aggiungonsi un’altra gonnella che levasi da dietro a coprir la testa e le braccia, e chiamasi lu suncurinu se la gonnella è di panno comune, faldetta se di panno gentile o di seta” (Casalis).
Al costume nero, dopo accurate, serie e documentate ricerche, si affianca il costume rosso e quello verde “colori molto cari alle donne tempiesi”.
L’abito rosso è stato ricostruito fedelmente in base a documenti e stampe dell’epoca: lo testimonia la scena del Graminatogghju che ritrae un gruppo di ragazze intente a cardare la lana; lo confermano le stampe del Verani, Francesco Alziator con La Collezione Luzzietti e diversi documenti scritti.
Il Generale Alberto Della Marmora rimase affascinato nel visitare la nostra città: Le donne di Tempio, in generale di notevole finezza di tratti e con splendidi occhi, avevano fino a non molto tempo fa un costume particolare che da qualche anno va scomparendo specialmente da quando Tempio ha preso posto fra le città della Sardegna.
Nei giorni di festa le Tempiesi, come la maggior parte delle donne galluresi, portano un corsetto scarlatto con le maniche aperte e guarnite di bottoni e bottoniere d’argento. Alcune hanno la gonna dello stesso colore anche se oggi sembra sia più in uso il verde per quella di panno, che si porta con un grande orlo scarlatto molto vistoso”. Un altra importante e preziosa testimonianza è il commento scritto in francese dal Re Carlo Alberto nel quale afferma testualmente che l’abito rosso “qui doit servir aia notes (a Tempio) des jeunes fille est d’un luxe incroyable. Il est de drap écarlate, couvert de galons d’or, ou d’atgent et de bouton de méme metaux d’une grosseur extraordi-naire qui s’etendent tous le long des manches , qui soni ouvert depuis les épaules jusqu ‘ata mains ».
Il vestito da sposa era quindi di stoffa scarlatta, impreziosito da galloni e bottoni d’oro o d’argento per tutta la lunghezza delle maniche aperte.
John Warre Tyndale visitò Tempio nei primi decenni del 1800 e commentò “Gli aristocratici vestivano alla moda italiana mentre la gente del ceto medio ed il popolino indossavano il costume tradizionale. Quello delle donne era composto di una giacca di velluto ros-so, azzurro, o verde, ben aderente al corpo, con un bordo di diverso colore e talvolta ricamato. Le mani-che rimanevano aperte nella costura anteriore, aveva-no bottoni d’argento… chi non ha visto indossare il suncurinu come gonna, non può immaginare come lo stesso possa trasformarsi in un elegante copricapo”.
Al Valery durante una sua visita a Tempio le fu presentata una ragazza che “indossava l’abito della festa, uno smagliante costume di panno scarlatto con eleganti bottoni d’oro”. Altra caratteristica del costume è lu .cenciu, il particolare copri-capo che si indossa in due modi così descritti dal Casalis e dal De Rosa: il primo scrive “L’altra particolarità delle donne tempiesi… è lu cenciu, che hanno imitato dalle Isolane della Maddalena. Esse ordinano la capellatura in maniera gentile, però senza pettini e quindi copron la testa con un fazzoletto raddoppiato a triangolo, che dalla nuca volgesi e legasi sulla fronte formando con i lembi delle rosette”.
ll secondo continua “…un bianco fazzoletto di tulle o di pannolino, cadente sul dorso in un largo triangolo col vertice in basso e sul petto in ampio collaretto, annodando i capi, coi quali si è formato questo, sulla nuca”. Anche Alberto La Marmora si sofferma sul cenciu”: Sebbene l’uso di questo fazzoletto sia tipico delle galluresi ne è variato in così breve tempo il modo di portarlo che il disegno fatto nel 1822, quando ho ritratto la scena del Graminatogghju, non ha più nulla a che fare con quello del tutto nuovo che ho disegnato nel 1838″.
E del cenciu ne parla anche Tyndale: “Il semplice e raffinato copricapo, su cenciu, è costituito da un fazzoletto di seta dai vari colori vivaci, legato a forma di triangolo con tre nodi dei quali uno è fermatò nella nuca e gli altri due sulla fronte”. E Carlo Alberto”: le donne sposate quando escono dalla loro casa, si coprono la testa con un grande fazzoletto bianco che copre tutta la testa…”. Marie Gomel Holten ai primi del novecento scrive: “Le donne portano come mantello una gonna a pieghe fitte che indossano al rovescio per mettere in evidenza il bordo variopinto; si mettono la balza, sulla testa in modo che si vedano soltanto gli occhi”.
Ma anche l’abito maschile è degno di attenzioni. Uno in particolare che tra poco rivedrà la luce: il còaru o cojetto un costume in cuoio “una veste che ha molta dignità” e gli uomini “compariscono più maestosi” come afferma il Casalis. “Era formato — dice De Rosa — da uno stretto giubbettino senza maniche, di pelle di dante morbida, finissima e d’un sol pezzo, a doppio petto”.
Ancora nel Dizionario Geografico Storico Statistico Commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna (1833), alla voce “Tempio”/Cojetti, che cinquanta anni addietro erano comuni con gran bene della sanità, ora sono in disuso, e forse non si trovano due soli vecchi, che tuttora li vestano”.
Padre Gelasio Floris in un suo manoscritto risalente ai primi del 1800 scrive che i coietti a “Tempio, in Gallura Settentrionale, sono aperti in mezzo al petto, con indizi di asole da una pane, e indizi di bottoni nel!’ altra”.